2015 - ENZO AMENDOLA, ESPLORATORE IRREALISTA DEL RAPPORTO TRA COSE E PERSONE Stampa E-mail

Come sempre, e ormai con una sorta di fisiologica pertinenza e una quasi infallibile perspicuità, la pittura di Enzo Amendola conferma la propria inclinazione profonda, silenziosa e regolata da una strenua compostezza stilistica, verso il rapporto drammatico che s’instaura tra le persone e le cose, irrimediabilmente: e che è, senza nessuna indulgenza per le suggestioni delle filosofie dell’esistenza, ciò che con enorme approssimazione possiamo definire l’opacità della vita. Il suo dipingere resta, anche in questi anni così sguaiatamente clamorosi, un atto di coscienza ineluttabile, insieme ferma, raggelata e elaborata sulla densità di un rapporto tra ciò che nel presente nasconde risonanze remote, tra ciò che palpabilmente conserva evanescenze enigmatiche e confina col nulla. Eppure - ecco la contraddizione vitale di tutto il processo di ricerca amendoliano i “contenuti”, pure riconoscibili al limite della raffigurazione fotografica, in realtà non esistono: ciò che esiste, e in modi in cui l’esattezza coincide sempre con un tasso di interrogazione assolutamente inclemente, è la perentorietà della forma, la nitidezza feroce dello stile. Si veda, a una prima riprova, il risultato molto alto di uno dei quadri della sezione “Interni” (La sedia del prete, 1994), in cui, in un clima di totale desolazione anche cromatica (pareti avana, pavimento grigio), il vero personaggio è l’arrogante poltroncina barocca cremisi e oro, che sembra sottoporre altezzosamente a chissà quale processo il povero sacerdote che le volge le spalle sotto un carico di sconforto da cui non lo salva neppure la propria ombra. Il rapporto coloristico tra il rosso della poltroncina e il violetto della mantellina che copre la cotta bianca e la nera talare realizzà splendidamente la durezza dell’affermazione delle cose sulle persone, in un ambito in cui il simbolo riveste un potere di soggezione pressoché assoluto. Nelle opere di entrambe le sezioni (“Interni” e “Esterni”) del ventenni o successivo continua a essere rilevante il ruolo di certi oggetti che alterano un plausibile equilibrio della composizione (le sedie, il telefono, gli accappatoi, gli abiti abbandonati su una qualche poltrona), per rivelarsi come gli interlocutori tutt’altro che passivi dei personaggi che vivono un loro sottile disagio in ambienti accesi da una luce solare di trasparenza marina o estenuati da un chiarore crepuscolare. E queste dinamiche, che si rivelano al pari di segnali di una vera e propria dialettica decompositiva, non funzionano di conseguenza come le “innaturali” linee di fuga di questo o quel contenitore “naturale” (camere, terrazze, sale di museo, tratti di spiaggia), ma piuttosto come linee di forza di questa pittura “orizzontale” in cui gli oggetti determinano le posture psichiche di chi di loro si serve. Si osservi per averne conferma quel magnifico quadro del 2013 intitolato con neutra “innocenza” Bagnante con accappatoio: un uomo di spalle, in piedi a torso nudo, un panama in testa, alla cui sinistra una sedia bianca mostra lo schienale con aria protagonistica, e a terra giace una maglietta a righe. L’uomo appare vagamente impacciato: ciò che lo sorregge è l’accappatoio zebrato a strisce bianche e nere, che funziona come una corazza. Lo sguardo del pittore s’impadronisce della scena dal basso. L’uomo fissa il cielo indaco carico di luce e i rilievi verdi e marroni del paesaggio vuoto: una straordinaria allegoria dell’indecisione. Si veda ancora un’opera dello stesso anno (La lettura), nel quale la giovane donna in costume bianco seduta a gambe accavallate su una tavola e intenta a leggere un libro nella luce estiva, sembra come regolata nei percorsi della sua attenzione dagli oggetti (ancora una sedia, una grande conchiglia, un accappatoio intensamente rossoverde davanti ai suoi piedi) e dalle loro misteriose geometrie, più che dalla propria concentrazione sulle pagine del volume. Nel regno dell’immobilità tanto caro.a un artista così fortemente intento a coniugare pensiero e immagine (e di cui l’emblema più clichiarato sembra essere in questa mostra l’affascinante quadro “a occhi chiusi” intitolato Interno con libreria (2014), ecco prodursi, col dittico intitolato Pesca subacquea n. l e Pesca subacquea n. 2, uno scarto che ha il sapore acre di un addio. Nel primo dei due quadri, una donna in costume immersa in piedi fino alle cosce in un’acqua verde solcata da striature appena accennate, sta sistemando la bombola sulla schiena del “suo” pescatore subacqueo. Nel secondo, girata di tre quarti, lo spinge ad immergersi come in un atto di premonizione: e l’effetto è di violenta drammaticità. Siamo alla sequenza di un film, e il riguardante è autorizzato a sospettare che il disagio che si respira in tanti momenti dell’opera amendoliana, qui si determini sul filo di una decisione senza scampo. Amendola osserva il proprio mondo a costante distanza di sicurezza, ma con la precisione rigorosa di un entomologo consapevole dell’urto costante e imprevedibile delle contraddizioni. L’artista non se ne difende con l’impassibilità, ma col controllo implacabile del proprio pathos. Il risultato, che ogni volta mette l’artista di fronte a una prova ultimativa, è quello di una pittura della crudeltà che si presenta come uno specchio curvo che deforma le ombre spettrali che lo abitano senza ricorrere mai a un gesto che frantumi rumorosamente la sintassi tagliente del sogno o dell’incubo. Questo mondo accetta la serenità senza escludere l’angoscia, e la sua forma è quella di un’attesa priva di abbandono, di un progetto che afferma la propria nitidezza contro un magma disordinato. Il colore puro prediletto da Amendola non funziona tuttavia al pari di un dogma, come appare in un’opera recente (Interno con abiti, 2014), in cui le accensioni cromatiche potrebbero anche preludere a una fase nuova nella ricerca di un artista di straordinaria caratura, la cui sigla di riconoscibilità non ha mai significato pigra ripetitività di temi e soluzioni espressive, ma costante approfondimento del linguaggio nel segno di una coerenza indefettibile. Bon. Chi vivrà vedrà.

Mario Lunetta