2010 - ENZO AMENDOLA, L’ENIGMA DELLA MEMORIA (Andrea Romoli Barberini) Stampa E-mail

Interrogarsi, oggi, sulle ragioni della pittura, dando aprioristicamente per pacifica, non tanto la sua inestinguibilità squisitamente disciplinare, quanto, piuttosto, la sua reale necessità d’esistenza in termini di attualità di forme e portati di senso non altrimenti esprimibili, significa sottintenderne, con appassionata competenza, la millenaria vicenda e valutarne, alla luce delle esperienze sin qui prodotte, l’ipotesi di ulteriori percorsi utili a restituire, attraverso la sua stessa mediazione, una certa visione del mondo.
In altre parole, una critica all’arte del dipingere, condotta dall’interno della disciplina medesima, ma con un approccio di metodo depurato da secolari ansie di allineamento con la tradizione del nuovo e altre forme di riduzione e negazione degli antichi precetti e che, al contrario, in piena coscienza, tenta un’operazione, per certi versi eroica, praticata con un’intelligenza che la fa sembrare quasi accidentale, di recupero e salvataggio di alcune preziose prerogative proprie della pittura.
Nel suo studio romano, in tempi non sospetti, quando cioè troppa pittura di figurazione esorcizzava il proprio apparente destino di solitudine e isolamento, rappresentando adunanze operaie, Enzo Amendola intraprendeva questo percorso virtuoso e complesso, senza comodi ammiccamenti ideologici e in assenza del fragile e provvisorio sostegno della tendenza all’oggettivazione dell’immagine che oggi, invece, a distanza di decenni, complice il condizionante lavorio dei nuovi media sulla capacità di lettura dell’occhio, pare dominare la scena.
Vista in questa prospettiva, l’opera di Amendola, pittore di figurazione, potrebbe apparire come una scommessa a lungo termine faticosamente vinta e forse, di fatto, lo sarebbe davvero, almeno per ora, se non fosse per la distanza siderale che separa questo artista dal benché minimo interesse per la sua personale appartenenza al fronte dei vinti o dei vincitori nell’eterna contesa per il dominio delle mode correnti.
Sul versante pittorico della referenzialità dell’immagine, oggi trionfante, non soltanto tra gli artisti più giovani, specie nella sua declinazione di glaciale oggettività, l’interpretazione data da Amendola si differenzia, fors’anche per effetto della sua generazione e cultura d’appartenenza, per quel vincolo particolare, quasi sottinteso, che fa della sua personale indagine un’esperienza autonoma, originale e irripetibile, ma in chiara linea di continuità con numerosi maestri del passato.
Una pittura, la sua, che ha e conserva, se così si può dire, radici,  “presupposti” storici leggibili, chiari e nobili e che anche per questo, nel comune alveo della figurazione, si differenzia da quella dei più giovani, orfana di veri padri pittorici perchè mutuata dalla tecnologia.
In questo scarto, che è, come accennato, innanzitutto generazionale, risiede la differenza tra un’interpretazione dell’immagine che, pur conservando intatta la sua cristallina leggibilità, nel caso di Amendola, è il risultato di un approccio complesso fatto di emulazione (nella sua accezione più nobile, di retaggio storico) e imitazione dell’esperienza, della natura e in qualche misura della realtà (non esclusa anche quella tecnologica); mentre nel caso delle tendenze pittoriche più recenti, eluso “l’impaccio” dell’eredità culturale, si arriva alla formulazione di un’immagine referenziale, attraverso l’interpretazione resa dal mondo della virtualità elevata a nuovo modello di riferimento.
Ed è nell’“identità virtuale” di questi manufatti, nati per così dire da un principio mimetico applicato alla sfera dell’immagine restituita dall’artificio tecnologico piuttosto che da quella prodotta direttamente dalla natura, che molti “addetti ai lavori” riconoscono qualcosa di molto prossimo all’aura della contemporaneità.
Inutile evidenziare il debito di quest’ultimo versante della pittura verso il principio della “grande condivisione” che, proprio in quanto tale, ne tradisce quelle insospettabili “contaminazioni” Pop che, al contrario, le opere di Amendola, escludono nel modo più categorico.
A sottolineare questa caratteristica connotante interviene, nei dipinti dell’artista romano, un’inedita quanto efficace interpretazione della dimensione Metafisica che, proprio attraverso la forza del suo enigma, scongiura, nella fruizione, il pericolo della banalizzazione di un’immagine “condannata” a sedurre, già al primo sguardo, con la sapienza tecnica espressa nei suoi elementi visivi, intrisi di quotidianità e di presente. Motivi, questi, che, paradossalmente, per quanto resi con piglio iperrealistico, per effetto della dimensione in cui sono calati, difficilmente ricomporranno l’unità intelligibile di un tema, cedendo all’opera il prezioso tratto dell’ineffabile. E tale enigmatica soluzione, che, in estrema sintesi, fa pensare alla convergenza di certe istanze poetiche di Giorgio de Chirico e Richard Estes - anche se di fatto c’è molto di più fino a risalire a Piero della Francesca – sarebbe in grado di garantire alle tele di Amendola la più assoluta estraneità alla sfera Pop anche se rappresentassero immagini simbolo della cultura di massa.
A ben vedere, quindi, l’operazione qui condotta consente, per così dire, alla pittura di uscire dal vicolo cieco tracciato dall’ortodossia iperrealista, sostanzialmente illustrativa, e muovere un passo indietro, in termini di definizione spazio-temporale, per ritrovare la via di un’opera “aperta”, che non esaurisce in sé le sue potenzialità di senso, ma che, di contro, si completa nelle ipotesi di significato di chi ne fruisce. Proprio per ciò, a dispetto di certe apparenze formali, l’operazione di Amendola è, di fatto, più “progressista” che “reazionaria” (per quanto evidenti siano i nessi con i maestri del “ritorno all’ordine”) perché, partendo dalla più rigorosa referenzialità dell’immagine, tende a neutralizzare la sterilità dell’iperrealismo per restituire allo sguardo e al pensiero, attraverso l’enigma, un ruolo libero e attivo.
La virtuosa mancanza di una lettura univoca si profila qui come conseguenza di una sorta di “montaggio” pittorico di frammenti di vita, non soltanto domestica, “congelati” nel ricordo. Situazioni di varia contestualizzazione che creano al loro interno il paradosso di coerenti incongruità, pur in presenza di un impianto cromatico misuratissimo, a suo modo tonale, che si accende, sovente, di guizzi “fuori registro”, imprevisti visuali molto prossimi all’accidente in musica. Ne deriva un’enigmatica quanto sofisticata “inorganicità” che fa apparire, talvolta, alcuni elementi come spaesati, quasi si trattasse di interventi di collage.
Sono i frames tratti dalla memoria e salvati dall’oblio, punti di riferimento di un pensiero carico di nostalgia che si muove per successione di immagini e ricostruisce contesti attraverso l’individuazione dei dettagli. Fotogrammi che si stagliano sull’indistinto di campiture piatte di colore che alludono al mare, al cielo, all’infinito e che attraverso la pittura si salvano dal naufragio nell’infinito del tempo.