1997 - ENZO AMENDOLA (Mario Lunetta)
Giustamente fazioso, Èmile Zola era convinto che «l'arte vive solo di fanatismo», e in un saggio molto militante del gennaio 1867 sull'ammiratissimo Manet, afferma che ciò che soprattutto colpisce nel lavoro del pittore di Olympia è la precisione implacabile dell'occhio, «conseguenza necessaria dell'esatta osservanza della legge dei valori». Aggiunge Zola, splendidamente: «Tutta la personalità dell'artista consiste nel modo in cui è strutturato il suo occhio: vede biondo e vede per masse».

Certe osservazioni mi tornavano in mente vedendo scorrermi davanti agli occhi la sequenza dei dipinti e dei pastelli recenti di Enzo Amendola, per associazione in qualche modo arbitraria eppure non incongrua, credo, e alla fine dotata di un suo fondo di consistenza: su un piano generale e teorico, naturalmente; non su quello di una inesistente parentela o discendenza dell’artista romano dal grande impressionista.
Museo n. 9 (1995)
Museo n. 9 (1995)
Già, perchè anche il nostro Amendola, a suo modo, vede biondo e vede per masse: nel senso che percepisce il mondo come attraversato e intriso dalla luce, e in questa luce sconfinata e chiara accampa i suoi corpi, le sue nature morte, i suoi inquietanti reperti archeologici.

In questa eterna e totalizzante luce di mare, vivono le sue masse, ma la loro è una vita inafferrabile come quella di decalcomanie; il loro essere masse è deprivato di volumetria; la loro esistenza, alla fine, è quella, labile e magica, di figure stampate su una qualche lastra di trasparente sensibilità e nitore. Il mare e ciò che lo solca, yachts, barche, traghetti, è una delle presenze di fondo, e anzi una delle centralità poetiche di questa pittura: ma in questo mare non c'è mai nulla di pittoresco, l'artista non si abbandona alle sue suggestioni visivamente più facili; c'è — si direbbe — sempre uno spazio di rispetto (e di sospetto)) tra il suo sguardo e l'immobilità di uno scenario che lascia adito a supposizioni di enigma, a perfino incresciose e pertubanti ansietà. Quella distesa verdeazzurra, nella sua piattezza tabulare e nel suo raggelato calore, ha l'aria di potersi trasformare di colpo in una cortina di tenebre. Un mare, quindi, del tutto innaturalistico malgrado la sua intensa e maliosa luminosità. Un mare oscuramente esistenziale. Ho parlato di enigma, e infatti l'intero percorso della pittura di Amendola, mi pare, è contrassegnato da un senso acutissimo della coscienza che tutto ciò che si vede nasconde un nòcciolo di insondabilità, e addirittura tutti coloro che anelano vedere sono anch'essi marcati da una sorta di intraducibile logos. Proviamo ad accostarci a queste creature dipinte con tanto impeccabile, perentoria sicurezza, con tanta sapienza impaginativa e cromatica. Uomini e donne, prevalentemente giovani o giovanissimi, sono sempre come sorpresi in un loro ermetico atteggiarsi interrogativo, in uno stato di attesa, apatica eppure misteriosamente appassionata. Chiedono qualcosa che non riescono a formulare con precisione, attendono una risposta al quesito di vivere. In questo senso, tutta l'affascinante pittura di Amendola potrebbe definirsi, non so quanto spiritosamente, un quiz metafisico.

Un quiz metafisico, sì: ma sottoposto a un distanziante effetto cinema. Il taglio da apparizione casuale di queste immagini, spesso sorprendenti, è infatti quello classico del fotogramma squincio. La loro straordinaria luce di epifanie deriva chiaramente da quella sorta di spaesamento involontario che definisce i loro gesti, perlopiù bloccati in un ambiente bloccato. Ciò che inesorabilmente toccherà loro, in quest'istante incerto e fugacissimo di sottilissima waiting, è la delusione. C'è in arte, in fondo, un mood più sommessamente novecentesco?

La delusione e il disincanto attraversano con le loro pallide pulsioni praticamente tutta l'arte del secolo che non sia direttamente votata al tragico e alla denuncia della catastrofe.
Viaggio n. 15 (1996)
Viaggio n. 15 (1996)
Lo stesso rappel à l'ordre dopo la tempesta delle avanguardie fa della delusione la propria piccola ferita. Da noi, Valori Plastici ne fa addirittura una bandiera, e il realismo magico del candido Donghi tenta di evaderne con un fievole sorriso. Fatto sta che, con la morte delle avanguardie, il mondo si ferma. La lingua dell'arte si ritrae, si ritira, si fa assorta. Tutto è silenzio: anzi, passività. Bene. Il nitore quasi fanatico di un artista come Amendola, il suo silenzio, la sua immobilità, tradiscono al contrario vibrazioni cariche di allarme. È qui che ad es. la sua consapevolezza dell'odierno male di vivere fa la differenza rispetto a un certo donghismo di maniera o a certe inclinazioni naives di cui una piccola pittura italiana troppo ammalata di "pulizia" ha miseramente vissuto tra i Cinquanta e i primi Sessanta: ed è una differenza di intenzioni, di cultura e di intelligenza. Amendola è un artista fortemente attrezzato, la sua è una pittura sofisticata che arriva all'attuale, ammirevole rastremazione e definizione del proprio perimetro poetico a forza di filtraggi accaniti: dal lume latteo e pulviscolare di Vermeer all' «impero delle luci» illusionistiche e vetrine di Magritte, con la benedizione dell'indimenticato Morandi e — naturaliter per un italiano — il sempre presente omaggio (o la sempre presente memoria) al supremo Piero della Francesca.

Il risultato è, innanzitutto, una fuoriuscita decisa da quella delusione e da quella nostalgia frustrata di cui dicevo: è, piuttosto, un senso misteriosamente laico della vita che va colta nel suo fulgore, seguendo con occhio asciutto la minaccia o semplicemente il disegno fugace della sua ombra, che allude anche alla distruzione e alla morte. E di questa distruzione e di questa morte, dentro tanta gioia di calore e di luce solare e marina, è emblema ambivalente, segno ambiguo e inafferrabile, la presenza dei volti ceramici di antiche divinità, Bacco, Apollo, Afrodite: considerati figurativamente non al rango di nobile decoro classicheggiante, ma a quello, ben più rabbrividente, di interlocutori muti (eppure capaci di un'eloquenza sottilmente complice o sottilmente accusatoria) con le presenze umane che si aggirano attonite nello spazio del museo.

Ecco quindi che il discorso di Amendola si snoda su tre principali punti di battuta: l'uomo (talvolta corredato di un'appendice animale: e l'irruzione del cane è, sia negli olii che nei pastelli, assolutamente folgorante); i reperti museali; il paesaggio marino (eoliano in particolare, si suppone).La risposta cromatica a un così grande scialo di luce mediterranea è, verrebbe da dire, di castigata insolenza: campiture ferme, stesure limpidamente povere di chiaroscuri, tavolozza denutrita. Le accensioni di questi quadri e di questi disegni derivano soprattutto da un uso paradossale, inventato e anomalo degli accostamenti: per cui la natura si presenta, già per sé, come falsa, irriducibile a qualsiasi rappresentazione mimetica. Qui, dentro un silenzio straniato, vibra il suono di certi rossi concentrati, di certi viola, di certi azzurri e verdi sorprendenti: e la figura umana appare, anche nella sua più indifesa esposizione corporale, chiusa in un teatro che non contempla che il monologo (interiore), inabilitata al confronto aperto, propensa a presentarsi di tre quarti o di spalle: come se l'asse della sua stessa consistenza psichica avesse subìto una torsione, un minuscolo preallarme di angoscia. In questi quadri, in questi pastelli nessuno conosce nessuno: ecco perchè una così esibita mitezza (anche disegnativa e coloristica) occulta una ragguardevole dose di aggressività. È, inutile nasconderlo, la stessa aggressività del mondo: lo stesso orrore quotidiano che nessuno splendore marino o nessuna riesumazione degli antichi iddii può esorcizzare, e che questa pittura così intensamente segreta ripropone senza clamori, per pura forza di poesia, per pura concisione di stile.

Mario Lunetta

(Catalogo della Mostra alla Galleria “Lombardi” Roma, 1997)