2012 - IL DONO E IL PROGETTO DI ENZO AMENDOLA (Mario Lunetta) Stampa E-mail

Il dono (e insieme, ovviamente, il progetto) del lavoro visivo di Enzo Amendola è qualcosa che sarei tentato di definire innaturale naturalezza, nel senso che da sempre l’artista esercita sulla sua materia, già di per sé raccolta all’interno di un perimetro molto concentrato, una strenua salvaguardia formale e un nitido rigore. L’autenticità del rapporto immediato col soggetto è sempre sottoposto a una serie di interventi di secondo grado che ne alterano senso e misura. L’artificio, il priem dei formalisti russi, inteso come primazìa delle forme sui contenuti, è un dato de-regolatore da sempre presente nella ricerca dell’artista romano. E’ però da dire che la sintassi amendoliana procede per movimenti obliqui che evitano ogni frontalità dichiarata, e – pur nella sua sintesi organicamente compatta, nel suo sistema di natura saldamente plurale – persegue una strategia volta a mettere in crisi le sicurezze del riguardante grazie a un gioco (mai clamoroso) di spostamenti, di rinvii, di scarti, di détours allusivi che inducono, anche nelle situazioni meno esplicitate sul piano del racconto, allarme e sospetto.
     Le opere dell’artista, dagli affascinanti olii alla peritissima grafica, hanno l’aria di essersi fatte da sé, per autogenesi. A primo colpo, l’impressione del riguardante è in qualche misura analoga alle suggestioni di quella poetica dell’impersonalità che in letteratura fu, tra Flaubert e Zola, il modus operandi di un realismo tardo-ottocentesco piuttosto visionario che mimetico. Bene. Un pittore come Amendola tende a scomparire nel manufatto, per rovesciare su di esso, sempre, ogni responsabilità di ottica e di stile. Ovviamente, senza riuscirci del tutto se (come mirabilmente avviene in uno dei pezzi più perturbanti di questa serie di opere degli ultimi anni come Il bagno, 2011, che senza smentirla acuiscono una visione duplice, dissociata e straniata tra le personae di una drammaturgia pittorica straordinariamente inquieta sotto la sua apparente impassibilità) appare a un tratto, in primo piano, un autoritratto a figura intera assolutamente anticelebrativo, che guarda in tralice l’osservatore volgendo le spalle alla sagoma femminile che sta entrando in acqua in un mare con funzione di  fermo fondale  verde pallido senza effervescenze, appena increspato attorno alle gambe della donna.
     Amendola, come m’è già capitato di osservare in passato, non occulta la sua rete di assenze dietro il feticcio dell’incomunicabilità, ma piuttosto sembra sospendere temporaneamente la comunicazione tra i suoi personaggi, e tra loro e le cose, gli ambienti d’interno, la natura: un’attesa di specie quasi filosofica risolta in una pittura la cui sobrietà è sempre più carica di ricchezza interna, la cui figuratività respira un’astrazione enigmatica, crudelmente interrogativa, e gli oggetti assumono spesso carattere di protagonisti dell’immagine. La poltroncina da terrazza, ad esempio (Gusci in riva al mare, 2011); il già considerato Il bagno; Bagnante che riposa (2011), realizzato secondo una regia visivo-spaziale tutta sfalsata sotto l’attenuazione di una luce appena ravvivata da momenti di colore più vivi; L’armadio (2011), in cui il bagliore del bianco della poltroncina intrattiene col mobile verde e gli abiti appesi un rapporto insieme pacato e conflittuale: e ancora in altri pezzi in cui l’artista si sofferma senza un granello di magniloquenza su reperti di statuaria classica considerati non troppo dissimili da oggetti e manufatti odierni: primi fra tutti, direi,  gli abiti. Nella loro presenza di veri protagonisti/antagonisti, l’artista elabora una sorta di feticismo visivo e tàttile, che si accende di splendidi cromatismi, per proporsi non di rado come fulcro dell’immagine. Gli abiti, gli accappatoi magari casualmente poggiati su una sedia, le coperte, i tappeti; e le scarpe, preferibilmente da tennis, lasciate sul pavimento in una dimenticanza affettuosa nel giro stretto di quest’universo estetico capace di filtrare magistralmente anche le facili seduzioni di un’imagerie estiva e marina, e invece costantemente impegnato nell’interrogazione profonda del caos fenomenico sorpreso con intelligenza paziente e straordinario talento nelle sue insufficienze, precarietà, caducità, morsi del caso.
     Quella di Amendola è una pittura tragica che non alza mai la voce. Una pittura che impone a se stessa, per virtù di consapevolezza, l’essenzialità di un linguaggio sedimentato di cultura che si è fatta istinto, natura seconda. E in questa serie di testi legati alla sua ricerca degli anni recenti s’è verificata su questa linea, e con la solita intransigenza, una sorta di riduzione coloristica: quasi un’inclinazione crepuscolare di specie stilistica, che rende se possibile ancora più raggelante la pacatezza dello sguardo.       
            Il circo tra casuale e dissennato che chiamano Mercato dell’Arte è ormai capace solo di impartire lezioni involontarie di opportunismo e di raggiro. Spiritose invenzioni seguono a lampi di genio fasulli: e all’interno di un sistema Cultura asfittico in tutti i suoi comparti regolati ormai quasi esclusivamente sul principio della mediocrità travestita di urgenza e di clamore, la lezione di Enzo Amendola si pone anche – in netta, secca controtendenza – come quella di un Maestro di integrità e di alta classe pittorica.
                                                                                                             Mario Lunetta
Aprile 2012