2009 - IL SECONDO TEMPO DI ENZO AMENDOLA TRA ALLEGORIA E NUOVO CALORE DELLO SGUARDO (Mario Lunetta) Stampa E-mail

Il faut, dans la traduction des oeuvres d’art philosophiques, apporter une grande minutie et
une grande attention: là les lieux, le décor, les meubles, les utensiles (voir Hogarth), tout est
allégorie, allusion, hieroglyphes, rebus.
Charles Baudelaire

Non porrei questa fase recente del lavoro di Enzo Amendola sotto il segno di un calore più espanso rispetto all’algida nitidezza delle sue immagini di qualche anno fa, ma sarei piuttosto portato a riconoscervi un’intensità di interrogazione più diretta, immediata, perentoria nei confronti di chi guarda: quasi che i sottili diaframmi “difensivi” pregressi si fossero in buona misura dissolti, se non arresi. Proprio, insomma, come se in questa serie di opere recenti (perlopiù olii su tela) l’artista avesse ridotto la distanza di discrezione fra testo e fruitore, fin quasi a una pretesa di coinvolgimento e, per così dire, di connivenza. A me pare che questa pittura vivida e calcolatissima sia entrata in un processo di lenta degustazione dei propri sapori interni, dopo i raggelanti giochi di rimando speculare di personaggi parcellizzati e di oggetti visti come relitti imperturbabili rispetto a un evento catastrofico: un microuniverso nel quale la natura marina funzionava pressoché esclusivamente come abbagliante fondale, e la luce mediterranea non era sufficiente a dissipare l’inquietante atmosfera “criminale” che faceva vivere di una straordinaria vita defunta (perfino nella sua carnalità, nella sua sensualità, nel suo respiro erotico) le figure umane, gli animali, le cose dentro un silenzio ansioso, come in prossimità di un evento catastrofico o nello stupore di una catastrofe appena avvenuta. Ecco così, oggi, la dimensione onirica trasformata per forza di pittura in fluire del quotidiano fermato nella misura mentale di un fotogramma; la visionarietà come interamente concentrata sul filo di uno sguardo definitivo, che non ammetta replica. Quella di Amendola è sempre stata una ricerca nutrita di fortissimi spiriti riflessivi; al limite, mi verrebbe di parlare di “inclinazione filosofica”, se non temessi di ingenerare equivoci sull’eccezionale, invincibile qualità del suo linguaggio, in cui convivono in assoluta fusione energia di sguardo giudicante, stupefacente abilità tecnica, curiosità intessuta di cultura: insomma, un viluppo di peculiarità che fanno il carattere di uno straordinario talento figurale, oggi, in quest’Italia la cui cultura è tristemente diventata il regno dell’improvvisazione fragorosa e dello choc pubblicitario. Si può parlare dell’ultimo Amendola come di un artista che proponga un rapporto più morbido con la realtà che va esplorando? un invito a un gioco più flou? un’apertura analogica nei meandri delle sue severe spazialità, in cui il rigore ha sempre accettato l’offerta della luce con un atteggiamento di attenzione, se non di cautela, non ultima tra le ragioni del fascino sospeso di tutto il suo lavoro? Neanche per sogno: ché una mossa del genere è ancora quanto di più estraneo (se non di interdetto) all’irrinunciabile lucidità amendoliana, alla precisione del suo occhio che fissa attraverso una sorta di lentissima metamorfosi la mobilità del soggetto-persona bloccata dentro la propria esattezza, la sua instabilità relativa dentro le impassibili geometrie spaziali che occupa, e di cui è parte raramente predominante. Se fino a tempi recenti la bellezza delle immagini dell’artista romano costituiva – per dirla con Cocteau - una sorta di “mistero laico” in sé concluso, queste opere recenti sostituiscono all’ambiguità sospensiva una nuova complessità di percezione: un habitus non banalmente indossato al fine di tout changer pour ne rien changer, ma scavato nell’icona per renderla ancor più materia, ancor più densità fotònica aperta. Questa complessità ulteriore si riversa sull’immagine e la costringe a porsi in una disponibilità e vivacità di più individuato protagonismo. E’, mi pare, l’avviarsi di un nuovo impegno dialettico tra opera e riguardante, nel senso che il rapporto testo-testimone si arricchisce di sensi trasposti, di un enigma vagamente ironico, di un’ombra di confidenza meno guardinga. Lo stato di attesa continua ad esser carico di un turbamento sottile, ma la tensione ha acquisito un che di terrestre che le precedenti fasi non conoscevano. Voglio dire che al procedere per emblemi muti è succeduto un procedere per situazioni dotate di parola, ancorché non pronunciata. Ciò ha provocato negli assetti linguistici amendoliani dei mutamenti compositivi anche rilevanti. Quel tanto di sognato e di remoto che tremava nelle visioni “metafisiche” precedenti, ora si materializza e anima di dinamismi più elaborati; i primi piani hanno una turbolenza diversa; l’immagine umana e quelle degli oggetti una pregnanza perfino provocatoria; la natura – non più quinta alabastrina o tessera netta di un puzzle irrisolto - reclama la valorizzazione della sua presenza fatta di concretezza. E’ ovvio che in questa felice alterazione di strutture e di distanze, anche la tavolozza abbia subìto più di un’iniezione di vitamine finalizzate alla densità cromatica, al prorompere dell’esistenza fisica di uomini e cose, all’esistenza della materialità insomma: e ciò determina ovviamente un conseguente crescere della densità materica anche in ordine al tessuto cromatico, fino alla vegetazione e ai cieli, che subiscono talora un quasi divertito trattamento atmosferico, con nubi in vaporoso movimento. E’ come se l’asettica crudeltà e la lentezza quasi automatica delle dinamiche che presiedevano al lavoro di Amendola fino a qualche anno fa, e gli davano quel senso a suo modo tremendo di inappartenenza dei personaggi e degli oggetti a se stessi, come di entità straniere in un mondo estraneo, si fossero parzialmente disciolte, quasi in un gesto di riappropriazione compiuto dall’artista, in uno sviluppo di riconoscimento/ricostruzione, per provarsi a allestire un microcosmo più cordialmente abitabile. Quella capacità che in passato dotava le immagini amendoliane di una così forte astrattività pur nella fedeltà rigorosa al verosimile si è come riempita di una robustezza volumetrica che rompe l’ordine spaziale e tende a squarciare le regole dell’icona. C’è in questi olii impeccabili e folgoranti, come in questi disegni di maestria rinascimentale, un’esuberanza che, entro un sistema di regole feroce, sembra lì lì per reclamare il proprio diritto all’arbitrio: ed ecco allora che le sue prove di massima concentrazione tendono tutte a una dimensione allegorica inesorabilmente immersa nelle contraddizioni dell’oggi, quelle dei simulacri estetici e quelle dei conflitti tra gli uomini. La violenza del mondo entra in queste splendide figurazioni anche con la violenza del tacere, o – parallelamente – del puro mostrarsi dentro fiotti di luce o grembi d’ombra. Si vedano pezzi della presenzialità quasi arrogante di Interno con donna che si veste (2007), o dell’allarmante intensità di La porta (2008); si faccia attenzione a un’opera di precisione matematica, ma tutta strategicamente elaborata su una rete di intese impenetrabili fra l’uomo con accappatoio bianco e asciugamano azzurro, la sua ombra-personaggio e il fascio di giornali sparsi a terra sul molo (2008); si penetri fin nei dettagli altamente significanti un dipinto dal fascino più che spettrale, teatrale, come il bellissimo L’abito nel giardino (2008); ci si soffermi con il dovuto sospetto su quel pezzo di magnifica, arcana riuscita (in un gioco di relazioni cromatiche di estrema raffinatezza) che è Ritratto nel parco (2008): e si vedrà in quali ammirevoli modi la pittura di Enzo Amendola sia cresciuta non su se stessa ma dentro se stessa, le sue irrinunciabili ragioni, il suo misurarsi con la scorza opaca del mondo. “Tout pour moi devient allégorie”, dice un famoso verso di Baudelaire in “Le Cygne”, una delle poesie più disperatamente parigine delle Fleurs du mal. E’ una constatazione che vale anche per Amendola, il cui sguardo continua ad andare al dilà dell’immagine che splende sulla tela (o sulla carta) per significare altro, altro che questo artista la cui coerenza non cessa di arricchirsi di acutissime profondità di senso non ha bisogno di gridare, ma semplicemente di suggerire, o di sottintendere.

Mario Lunetta