1997 - I SILENZI STREGATI DI AMENDOLA (Renato Civello) |
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Quasi interamente dedicata al mare e agli indugi museali - l'una e l'altra tematica sottilmente segnata da un transfert d'impronta surreale - la bella mostra allestita da Enzo Amendola in una delle più importanti gallerie di Roma, da Enrico Lombardi. Nella presentazione in catalogo, nel corso di un'analisi acuta e vibrante che scava senza alcun ovattamento di comodo nella personalità «clandestina» dell'artista (peraltro attraverso una scrit¬tura che nell'esplorare la creatività po¬ne se stessa, in tutta freschezza, come dato essenzialmente creativo), Mario Lunetta chiama in causa il «lume latteo e pulviscolare di Vermeeru, e Magritte, e Morandl, e, come remoto e non elu¬dibile archetipo, Piero della Francesca.![]() Bambina con le pinne (1996) In effetti, osservando senza fretta, con la volontà di intenderne le innervature culturali ed estetiche, l'opera del bravo pittore romano, non potrà sfuggire che essa è caratterizzata, alla base, da una singolare osmosi temporale: passato e presente, ben oltre la provvisorietà ed ovvietà ottica, si fondono, in purezza di segno, di luce, di cromìa; e in questa condizione, piuttosto rivoluzionaria, di un nuovo realismo che nulla concede alle programmazioni socialitarie e di maniera non sussistono aspetti, accadi-. menti (ancora il Croce dell'effimero, della «non storia»), sensazioni, ardenze che non facciano i conti con la più com¬plicata realtà della coscienza. È qui, nel momento stesso in cui la vi¬sione fenomenica si trasferisce nell'a¬rea della visione visionaria, e il rac-conto si fa parabola, e la struttura si colma di metafora e di ambigua pas¬sione, che i dipinti di Enzo Amendola - l'una o l'altra Spiaggia con gli aman¬ti solitari, l'una o l'altra memoria mu¬seale che dà al quotidiano un'insospet¬tata latitudine, o il Viaggio n. 15, e per¬sino la Bambina con le pinne che avan¬za su un improbabile territorio del so¬gno - conquistano la sorprendente va¬lenza dell'oltre. Per giungere a questo risultato ottimale Amendola si serve di un apparato linguistico di tutto rispet¬to; e direi che, nel mentre aumentano di numero e di spessore le ipotesi in¬quietanti dello spirito, non vengono meno le qualità primarie e legittiman¬ti della pittura in sé Sono esse, anzi, che consentono di interrogare, di là delle lame di luce che illudono il rosario del¬le sorti borghesi, la profondità del mi¬stero. Da notare che i silenzi stregati di Amendola, i suoi indugi vagamente al¬lucinati sull'immagine significante vi¬vono e si potenziano, quasi sempre, su certe scelte antitonali. Ma non si tratta di un timbro asettico: un impercettibi¬le fervore, certe sottilissime migrazioni di gamma, un velluto leggero che scal¬da e fa lievitare la vena chiarista testi¬moniano l'apporto `risolutivo di una non comune sapienza. È un magistero, quello di Amendola, illusoriamente fa¬miliare, da cronaca: c'è, dietro la siepe di leopardiana memoria, uno smarri-mento corale, l'indecifrabile affasci¬nante infinito. Febbre ed angoscia. L’ombra sull'ungarettiano «male di vi¬vere». Ma godiamoci questa bella pittura, dimenticando, magari, la sua sofferen¬za genetica. Non chiediamoci nemme¬no se il cane che ricorre in molte ope¬re (v. Cane sul terrazzo, Dioniso, il ca¬ne e i limoni) abbia, come in Gauguin, una incidenza dichiaratamente simbo¬lica: ci basti, infine, un congegno figu¬rativo che appaga gli occhi ma non di¬mentica gli itinerari del sentimento. E prende le distanze, insieme, dall'acca-demia e dal labirinto dialettico. Renato Civello (Secolo d’Italia, 1 marzo 1997) |