2001 - AMENDOLA, IL TEATRO DEL SOSPETTO (Mario Lunetta) Stampa E-mail
«Nel dettaglio c'è Dio» ha scritto il miscredente Nietzsche. Il dettaglio è un frammento della totalità, che la contiene tutta microscopicamente, e può essere una scheggia impazzita che segue traiettorie non programmabili e inaudite, o una scheggia chiusa nella propria paralisi. La pittura ha sempre oscillato tra queste due polarità: velocità furente vs immobilità congelata; e non è detto che nella seconda opzione non si nasconda una ricchezza almeno pari a quella contenuta nella prima. C'è chi, nei nostri tempi forsennati votati alla religione della fretta, ha deciso di scrivere un elogio del suo contrario. «Senza lentezza non si può fare nulla, neppure la rivoluzione» dice John Francklin, protagonista del bel romanzo di Sten Nadolny La scoperta della lentezza (1983). È una divisa che mi pare possa attagliarsi senza forzature a un artista come Enzo Amendola, che dell'immobilità apparente ha fatto la propria sigla e il proprio misterioso progetto.
Afrodite e l'accappatoio verde (1999)
Afrodite e l'accappatoio verde (1999)
Ma Amendola è senza remissione un uomo della postmodernità, per cui l'interezza del reale non può non apparirgli fatta di mutilazioni, connessa di porzioni fratte da faglie inquietanti, in un tempo senza più sintassi, nel quale finiscono per avere lo stesso valore le ère e i nano-secondi, le mute figurazioni plastiche delle arcaiche civiltà mediterranee e — prese nello stesso vortice cieco e indefinibile — certe persone dell'oggi (proprio in quanto personae, in quanto maschere) accostate per contrasto e insieme simbiosi, ancorate allo stesso precario respiro. E quello che rispetto al passato lavoro amendoliano sorprende ed affascina, in questa sequenza quasi implacabile di olii, pastelli e tecniche miste, è il passaggio silenzioso di una sorta di fluido erotico tra i personaggi viventi e le divine reliquie delle remote terracotte, tra i corpi alimentati dalla luce marina e gli abiti multicolori abbandonati sulle sdraio, perfino tra le sagome inquiete dei cani in attesa e gli elementi di contorno. Mi pare questo l'elemento di più forte novità nel lavoro recente di un pittore che dà vita, ormai senza più nessuna preoccupazione di attenersi a certe regole di codificazione «metafisica», a un universo di segni di straordinaria sicurezza e maturità, a una disseminazione di forme del quotidiano più nevrotico e casuale, e nondimeno più carico di allarme, in un gorgo di minimalità drammatica in cui la sola aspettativa da non coltivare è una definitiva salvezza dal vuoto che incombe e depriva di senso ogni cosa, ogni gesto. Dentro questa assoluta carenza di logos, la nitidezza delle immagini di Amendola ha una sua energia prensile. C'è in esse una decisione che dilata la fermezza dell'icona e ne fa puro fulgore animato, intensamente acceso pur nel cerchio dell'immobilità, nella geometria assopita della lentezza e di un'attesa che resterà comunque insoddisfatta.
Vento sul terrazzo (2000)
Vento sul terrazzo (2000)
Quella dell'artista romano è, ormai con estrema chiarezza e estrema consapevolezza, una pittura che definirei «di fotogrammi». Tessere, tasselli splendenti di pulizia fotònica strappati a una dimensione complessiva e fissati in una luce abbacinante, o in un'ombra ambigua; residui orgogliosi di una vicenda riassumibile nell'interrogazione imperterrita di sè, della propria identità smarrita, frantumata e dispersa. E qui, in questo.spazio oscillante, in questa impercettibile piattaforma in bilico, che la nostalgia di racconto si fa, definitivamente, racconto per lacerti. Le Grandi Narrazioni non appartengono ormai più alla postmodernità, la compiutezza di un discorso espressivo si realizza ormai, per così dire, soltanto derealizzandosi. Così, Amendola risolve in ardua nettezza formale il groviglio nebuloso che rende magicamente omologhi i suoi personaggi viventi e le sculture arcaiche che con essi convivono, fin quasi a scambiarsi il loro ruolo — pietra contro carne -, come splendidamente accade in un pezzo tra i più contagiosamente erotici e crudeli (Afrodite e l'accappatoio verde). E questa dialettica sottile eppure perentoria a imprimere senso profondo di contraddizione stilisticamente risolta all'intera sequenza delle immagini. E si direbbe che, tra questi due ordini di elementi, l'umano e lo scultoreo, la cifra di più pronunciata vitalità si concentri negli abiti, nei costumi da bagno, nei prendisole, visti come spoglie piene di carattere, capaci di rivendicare il diritto a una presenza non solo esornativa e da obliterare subito dopo l'uso, ma al contrario dotati di un'energia da interlocutori a pieno titolo, al tempo stesso indicatori semiotici e drammatici nodi di stile. Si veda come assai di frequente il richiamo principale dell'immagine non si accentri sulla presenza dimidiata. La figura, soprattutto la figura femminile che è quasi sistematicamente l'enigmatica, fascinosa ospite-signora di questi quadri, viene impietosamente mostrata come un fotogramma incompleto, seccamente tagliato. Il film della crudeltà si snoda con acuminata maestria, entro una zona protetta che non occulta mai completamente le proprie insidie. Le campiture salde di colore tipiche della «maniera» di Amendola non ce la fanno a comunicare sicurezza, in questo microuniverso mediterraneo e balneare invaso da misteriosi, indecifrabili incubi, e la sua pittura «cinematografica» si esalta come mai prima nell'invenzione poetica-balneare invasa da misteriosi, indecifrabili incubi, e la sua pittura «cinematografica» si esalta come mai prima nell'invenzione poeticamente arbitraria del colore (capelli verdi, cielo e mare come fasce blu compatte) o nella sottolineatura bruscamente allusiva e reticente di una gestualità lievemente sgomenta.
In questo show d'eccezione l'effimero esistenziale si fa assoluto figurativo in forza, direi, di una visione radicale.
Abbraccio (2000)
Abbraccio (2000)
Amendola non concede un'unghia all'emozione esplicita, o ai rumori del mondo. Certi suoi spazi a campitura totale hanno la profondità illusoria di muraglie lontane, e i suoi sfondi di isole o di montagne sono davvero fondali di un teatro del sospetto. Se la Metafisica storica aveva bisogno di simboli e di stemmi esplicitati a livello di etichette e di legendae, il post-metafisico Amendola non frequenta una lingua grondante di miti se non come reperti confusi nel nonsense di una grammatica cieca. Se l'iperrealismo era brutalmente mimetico e fondato su volumetrie monumentali, il gioco «piatto» di Amendola esprime tutta la sua ricchezza su un sèguito di pareti anaprospettiche, al tempo stesso mentali e concrete. Il corpo possiede la stessa energia della propria sparizione. I dinamismi scenici si alternano con una maestria che è puro illusionismo e insieme puro contatto, materia e allegori: appunto l'insensatezza disperata dell'epoca si tocca senza alcun supporto di «didascalie» e per pura altezza di pittura in queste tele e pastelli e tecniche miste in cui la maestria, pur raffinatissima, non scade mai a estetismo, ma pulsa costantemente in una serie di provocazioni, di chiamate di correo starei per dire, pronunciate senza clamore eppure con grande violenza. Niente di completativo, in tutto ciò; semmai, una facoltà di coinvolgimento a distanza in quella che, parafrasando Montale, è una rissa così poco cristiana e così irrimediabilmente umana. La contemplatività, in arte, rischia sempre di confinare con l'evasione. Amendola, al contrario, non è solo uno sguardo, è anche un giudizio: e le sue immagini appena suggerite parlano con sommessa intensità e con una lingua essenziale e vibrante della nostra vita, del suo contraddittorio furore e del suo urlo inascoltato.

Mario Lunetta

(Catalogo della mostra della “Galleria Lombardi”, Roma, 2001)