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2007 - IN PRINCIPIO FU LA MERAVIGLIA (Duccio Trombadori) PDF Print

Una delicatissima patina di colore avvolge le nitide forme contornate da Enzo Amendola per distillare in immagine l’impressione ricevuta dal flusso dei suoi sentimenti, toccati per un attimo allo sguardo di un volto, di una posa femminile, di un oggetto immerso nella luce meridiana, di un barbaglio di sole pieno quando trafigge la distesa azzurra del mare, oppure filtrato da tendaggi sulle ombre diffuse si una imperturbata intimità domestica.

La vita, si sa, è un gran vento costellato di occasioni. Non è facile, si sa, ricavarne l’immagine d’arte se non per appunti provvisori, condimento abituale della diaristica visiva e letteraria che ci accompagna nel tragitto esistenziale. Enzo Amendola vive immerso nel suo diario privato, discreto e misurato nell’intimo, e in un certo senso limitato per pudore d’emozione al breviario di una sintomatica agenda personale di ricordi e di esperienze.

Da questa vasta materia di appunti – incontri, situazioni umane, distacchi dalla presa corrente delle fatiche quotidiane –
Cover girl (2005)
Cover girl (2005)
il pittore però si dissocia mediante una lenta elaborazione d’immagine che trasvaluta metodicamente il “fatto” per ottenere il “ben fatto”, e cioè l’incanto di una soluzione estetica pregevole in sé stessa, come una sorprendente missiva, o carta postale, giunta al destinatario da un mondo senza luogo e senza tempo.

Questo singolare effetto di “presenza-assenza” si riscontra nelle tele ordinate dalla squadratura visiva di Amendola che impagina il suo disegno pensando la relazione di colore e luce in ogni centimetro quadrato della composizione. Autore colto, egli ci offre una espressione compiuta, riscaldata e ravvivata dalla pinacoteca ideale cui per inclinazione di stile fa riferimento: senza tornare troppo indietro con la memoria, ci rileggi il richiamo al gusto preziosamente fotografico dell’ultimo Gianfranco Ferroni, la impaginatura ravvicinata di Leonardo Cremonini, e non casualmente una certa atmosfera da “teatro della realtà” come può apparire nelle lucide e stralunate visioni oniriche di Fabrizio Clerici.

Amendola è pittore intellettuale che riscopre nel chiuso laborioso dello studio l’alone aurorale delle sue emozioni egli dialoga con l’esperienza e filtra con la cultura visiva. Ne risulta una pittura dalla appartenenza ferma e distesa con la uniformità di un pennello esercitato alla omogeneità delle campiture larghe o del dettaglio infinitesimale. Una pittura meticolosa e amorevole che effettua una accuratissima indagine per non disperdere la quintessenza del sentimento. L’immagine sorge così unitaria e come tale va apprezzata tramite una lenta osservazione dei particolari. Guardate per esempio il costrutto di un interno col pavimento arabescato di mattonelle su cui pende da una stampella una vestaglia femminile dai toni rosa: il reticolo delle forme e delle luci tesse la trama di una immagine che a prima vista può distrarre per l’impianto prospettico sghembo e ravvicinato, ma ciò che più conta è invece il motivo ornamentale in cui il pittore si perde inseguendo passaggi luminosi, filtrando tonalità, e raccordando piani colorati.

Una simile attenzione per gli oggetti “ a doppio impatto” (squadratura compositiva e microanalisi del dettaglio) definisce la particolarità stilistica di Enzo Amendola e ne esalta la personalità espressiva.
Interno con abito rosa (2005)
Interno con abito rosa (2005)
I suoi prelievi dal reale (che tanto lo avvicinano all’esperienza storica della “nuova figurazione” italiana) rifuggono però dal declinare para-espressionistico della materia pittorica, e tantomeno accedono al gusto delle associazioni deformanti o alle allusività di paradigmi ideologici incastonati tra gli “stemmi” della odierna civiltà delle comunicazioni pubblicitario-commerciali.

Profili di ragazze in un interno, abbigliamenti estivi e terrazze sul mare, serti di tappezzerie trapunte col fiato, figure maschili e femminili sorprese in una situazione di intimità volutamente non significativa (l’istantanea è di per sé il sintomo della infinita vanità del tutto) sono primaditutto il pretesto per tessere la tela di un occhio vorace come il suo: avido di luce e di colore, capace di ritingere ciò che il mondo esterno trasmette (fotografia) in uno spettacolo di artificio immobile e silente. Spezzoni di vita, segmenti del flusso esistenziale si distaccano così per uno sguardo a tela di ragno che isola l’immagine, la ritaglia e la compone in una teatrale fissità. E vediamo, ancora: la terrazza, il mare, una sedia, un cane, tappeti e lembi di una tenda, mani giunte, maniglie di finestre, serrande semi aperte, qualche conchiglia, e volti di donna un po’ attoniti, colti al volo in primo piano o di profilo….

Colori preferiti e bene ottenuti da miscele quintessenziali: verde, rosso, viola chiaro, giallo, rosa, azzurro di cobalto, e varianti di grigio ricavato per sapiente mescolanza di tinte che enunciano il fondale di cieli facili da toccare per quanto appiattiti sul piano dell’immagine.

Eccoli, gli ingredienti della pittura meditata e progettata dalla mano-mente di Enzo Amendola che coglie la superficie e pure scava nella profondità del modo di vedere e di sentire. Il suo sentimento è sempre catafratto e filtrato da tinte di una opacità amorevolmente perseguita che sembrano disporre gli spazi sul piano di una superficie scandita al fine di insonorizzare tutta la veduta d’insieme.

Rilievi minimi ci danno talvolta a vedere ed avvertire un sussulto dello spettacolo a questo modo impaginato. E sono rilievi luminosi, punti di irradiazione studiati e incrociati come in un gioco di corrispondenze cui il pittore si affida non tanto per vezzo di maniere, quanto per incidere sullo schermo del disegno il vero scopo della sua espressione.

Si tratta, in breve, della magia dei corpi “immersi nella luce”, e della luce come ingrediente originario e sovrano di ogni infuso visivo. In questo senso va intesa la passione espressiva del “figurativo-oggettivo” Enzo Amendola: i suoi manufatti visivi, cesellati con attenzione da orefice, non puntano tanto alla riproduzione del reale quanto alla sua totale trasfigurazione.

Siamo in fondo al racconto fantastico, o, se si vuole, ad un nuovo “realismo magico”, affiorante per vocazione spontanea dal fare puntuale ed partigianesco della pittura. È naturale che una simile poetica sintetizzi una intensa e qualificata varietà di esperienze estetiche: la purista-novecentesca (come non risentire la eco di una Edita Broglio, in certe figure quasi “quattrocentesche” di donne e di conchiglie semisopsese in uno sguardo sghembo?), la cromatico-lineare (di ascendenza piuttosto “viennese”, o di memoria casoratiana), la ipnotico-surreale (per le piatte luci quasi da laboratorio) e infine il freddo segno descrittivo dello sguardo “senza soggetto”, come nell’elenco narrativo di Alain Robbe-Grillet.

Enzo Amendola ha l’indole del narratore, o della scrittura-sceneggiatura, quando si impegna a fissare il suo punto a croce luminoso sulla superficie conclusa della tela bianca. E si misura esteticamente con lo spirito della “école du regard” come se i suoi dipinti risultassero alla fine puri e semplici “contatti” cinematografici, spezzoni di pellicola in attesa di montaggio.

Il racconto, frammentario per vocazione, diventa così la traccia visiva di una serie infinita e senza trama: e in questo caleidoscopio senza perché si compie il miracolo espressivo dell’opera compiuta. L’immaginario domestico, di esperienza vissuta, messo in scena da Amendola finisce col diventare parabola della vita contemporanea, cristallografia di personaggi ordinati da un flusso esistenziale che li coinvolge e al tempo stesso li esibisce privi di qualsiasi protagonismo cosciente.
Interno con sedia gialla (2005)
Interno con sedia gialla (2005)
Tutta una galleria di cose viste, di persone, di situazioni, di oggetti, di paesaggi è sottoposta al vaglio di una camera ottica più che prensile, onnivora: come se tutto il senso del mondo si esaurisse nel flebile e però quanto mai sensibile filtro retinico di una fantasia indagante e manipolatrice.

Ciò che finalmente emerge ad una più accorta riflessione sull’immagine dipinta è proprio il “punto di vista” del pittore che partecipa alla scena raffigurata come occhio distaccato, macchina da presa “al di là della coscienza”, registratore calligrafico di un mondo indifferente al tempo e impassibile ai moti del sentimento, come certi relitti di statue che Amendola ama talvolta portare sulla tela a commento dei suoi scenari di simultanea associazione visiva.

L’occhio partecipante dell’uomo, l’occhio vigile della coscienza, sembra allora quasi scomparire in una pregiudiziale sospensione di giudizio di fronte al compito primario della esecuzione pittorica: e i “fenomeni” della visione si presentano liberi da ogni possibile investitura di significato esterno alla loro pura consistenza formale, e cromatico-luminosa.

Forse in principio era il Verbo. Ma Enzo Amendola, nell’aderire in pieno ai risultati estetici della rappresentazione, sembra più incline a ritenere che in principio vi sia stata l’Immagine.

E in questa singolare estasi visiva si manifesta l’essenza filosofica di una espressività (non diceva Platone che la filosofia nasce dalla “meraviglia”?) che nei precetti della manifattura eseguita “a regola d’arte” riconosce e conferma il più chiaro e originale accento del suo stile.


Duccio Trombadori

(Catalogo della mostra alla Galleria “Studio Dr. Spazio Visivo”, Roma, 2007)